Scuolanostra
Latino classe V
 
OVIDIO, METAMORFOSI , libro primo
Morte di Fetonte
 
Fetonte, con le fiamme che gli divorano i capelli di fuoco,
precipita vorticosamente su sé stesso e lascia nell'aria
una lunga scia, come a volte una stella che sembra
cadere, anche se in verità non cade, dal cielo sereno.
Lontano dalla patria, in un'altra parte del mondo,
l'accoglie l'immenso Erìdano, che gli deterge il viso fumante.
Le Naiadi d'Occidente seppelliscono il corpo incenerito
dal fulmine a tre punte e sulla lapide incidono questi versi:
«Qui giace Fetonte, auriga del cocchio di suo padre;
e se non seppe guidarlo, pure egli cadde in una grande impresa».
Affranto, il padre aveva intanto nascosto il volto contratto
dal dolore e, se dobbiamo crederlo, dicono che tutto un giorno
trascorse senza sole: luce offrivano i bagliori
degli incendi e almeno a questo servì quella catastrofe.
Clìmene invece, dopo aver maledetto tutto ciò che è possibile
in così grande disgrazia, impazzita di dolore,
straziandosi il petto, vagò per tutto l'universo
cercando all'inizio il corpo senza vita, poi le ossa,
e solo queste ritrovò, sepolte in un lido straniero:
si accasciò sul tumulo e inondò di lacrime il nome
che lesse sul marmo, scaldandolo col seno ignudo.
Non minore è il lutto delle Eliadi: pur se vano come tributo,
offrono lacrime alla morte, battendosi il petto con le palme,
e prosternate sul sepolcro, notte e giorno invocano
Fetonte, che d'udire quei tristi lamenti non è certo in grado.
Quattro volte, riunendo le corna, piena era tornata la luna
e quelle, per rito ormai sancito dal tempo,
s'abbandonavano al pianto, quando fra loro Faetusa,
la sorella maggiore, volendo prostrarsi a terra, lamentò
che le si fossero irrigiditi i piedi; premurosa Lampezie
cercò di avvicinarla, ma una radice imprevista la trattenne;
un'altra sul punto di strapparsi i capelli con le mani
divelse delle foglie. Questa si duole che un ceppo
le serri le gambe, quella che le braccia si protendano in rami.
E mentre allibiscono, una corteccia avvolge gli inguini
e a poco a poco fascia il ventre, il petto, le spalle e le mani:
solo la bocca che invoca la madre resta viva in loro.
E che può fare la madre, se non correre qua e là,
dove la trascina l'angoscia, a dispensare baci finché può?
Non basta: tenta di svellere dai tronchi quei corpi,
ma con le mani spezza i rami appena spuntati e da questi
stillano gocce di sangue, come da una ferita.
«Férmati, madre, ti prego,» gridano quelle per la sofferenza,
«férmati, ti prego! Nell'albero si strazia il nostro corpo.
Addio, è la fine...», e la corteccia soffoca le ultime parole.
 
 
Gerolamo Romanino (1484-1562), Fetonte, Trento, Castello del Buonconsiglio